GLI ESTREMI

L’inizio dell’amore e’ spesso simultaneo. Non così la fine:da ciò nascono le tragedie.                          

  Di Alessandro Morandotti  

 

Io non so parlar d’amore, come cantava anche Celentano, ma l’aforisma citato trova spiccate analogie con la gara: “L‘inizio della gara è sempre simultaneo. Non così la fine: da ciò nascono le classifiche.

Eppure quei due momenti, l’inizio e la fine, pur non essendo entrambi simultanei, sono uguali un po’ per tutti i nuotatori; sono due istanti, nel senso letterale del termine, che racchiudono tra di loro l’intera prestazione, e si chiamano partenza e arrivo. La partenza è quel momento carico di tensione, quando il ballo di gruppo che eleva tutti i concorrenti al livello del blocco, regolato dal ritmo dei fischi del giudice, si arresta: tutti fermi. Il giudice dice A POSTO (o nelle competizioni internazionali TAKE YOUR MARKS) e da lì trascorrono alcuni interminabili eterni secondi prima che gracchi il via.

Quegli attimi, quando tutti gli atleti della batteria sono disposti a testa in giù, aggrappati allo spigolo anteriore del blocco, caricati sulle gambe, sembrano eterni. Si tratta generalmente di pochi secondi, un paio, dipende dalla giuria di gara. Ma a te che sei lì sembra ti scorra davanti l’intera esistenza: silenzio, tutte le energie sono dietro i padiglioni auricolari, pronte a captare il via, quel via che farà esplodere la potenza dello stacco.

La mente umana ha delle potenzialità incredibili, riesce a filtrare i rumori e ignorare tutto ciò che è diverso dal beep che si sta attendendo. Intanto tu sei ancora lì, piegato, col sangue che va alla testa e quel goccio di acqua che hai bevuto mezzora fa tenta la risalita; se poi hai mangiato anche mezzo biscotto sei finito: o mi date il via o vomito, mi vien da riprendere gli starter più lenti. Invece guai a distrarsi, che un secondo in più sul blocco è una gara un secondo più lenta. Poi l’ingresso in acqua, l’impatto con l’acqua, l’abbassamento di temperatura corporea e a seguire la gara. Nuoti nuoti nuoti fino a che … eccola là: la parete, ammantata di giallo, rivestita di quella membrana a strisce verticali in rilievo che è la piastra, pronta ad attenderti, a registrare il tuo arrivo. Non importa quanto affaticati si pervenga, alla piastra spetta sempre una potente pacca, quasi fosse colpa sua se, da quando è suonato il beep, ci abbiamo impiegato tutto quel tempo, e soprattutto tutta quella fatica, ad arrivare fin lì da lei.

Se lo merita quel sonoro ceffone, è rimasta ferma, senza fare niente per venirci incontro, per alleviare il nostro sforzo. Magari nei giri intermedi si è anche beffata di noi, dandoci l’illusione di essere lì ad attenderci, col suo colore evidente, facendoci credere che la fine fosse vicina, offrendoci un soffice (rispetto al muro) contrasto per ripartire per la successiva frazione. E immediatamente dopo la pacca, lo sguardo al partner della piastra: il signor tabellone elettronico, che spesso sembra giocare a nascondino, e a volte si lascia trovare recando sorprese sgradite, altre con notizie entusiasmanti. Questi due momenti sono comuni a tutti i nuotatori: giovani e meno giovani, agonisti e master, uomini e donne, velocisti e fondisti.

Unica eccezione i dorsisti per i quali la visione è tutta a rovescio.

Elena Rigon

 




Lo sport e i figli. Quando i genitori si trasformano in ultras

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In questa società, resa ancora più competitiva dalla crisi, troppo spesso madri e padri riversano le loro frustrazioni sui figli che praticano sport. Ecco il decalogo per un corretto sviluppo psicomotorio dei ragazzi

Il trevigiano Silvio Maras costringeva il figlio, notizia da prima pagina di numerose testate di questi ultimi giorni, giovane promessa del nuoto, a subire continue pressioni psicologiche e allenamenti particolarmente intensi e, non pago, gli imponeva di assumere grandi quantità di integratori proteici, creatina e aminoacidi ramificati, al fine di migliorarne le prestazioni. Complimenti e premi se vinceva, parole dure e maltrattamenti se perdeva. Parte una denuncia da parte di amici e parenti: il tribunale toglie la patria potestà a entrambi i genitori, patteggia con il padre aguzzino due anni di detenzione e il ragazzino viene affidato ai servizi sociali. Forse si tratta di un caso estremo, ma se ci capita di assistere a qualche competizione sportiva giovanile di qualsiasi disciplina, non possiamo evitare di accorgerci come frotte di mamme e papà amorevoli e normalmente perbene, riescano a trasformarsi, abbarbicati alle reti di un campetto di calcio o scompostamente seduti sulle tribune di un palazzetto, in fanatici urlatori che insultano tutto e tutti, compresi i propri figli, se le loro performance non corrispondono alle loro aspettative. E così lo sport che per i giovani è soprattutto passione, socializzazione e divertimento, diviene solo fonte di ansie, paure, tensioni per timore di non soddisfare le ambizioni del loro principale punto di riferimento, la famiglia.

GENITORI IN VERSIONE ULTRAS — Questi spettacoli, non certo edificanti, sono in genere offerti da adulti che nel loro passato giovanile hanno avuto ben poco a che fare con lo sport o che, perché poco dotati, a loro volta sono stati pressati da genitori altrettanto esigenti. Madri e padri che riversano sul figlio tutte le frustrazioni e le insoddisfazioni collezionate nel corso della vita precedente la sua nascita e che tramite il figlio vivono un prolungamento della loro personalità, in termini di aspirazioni realizzate attraverso la loro riuscita. E così se si ritrovano un piccolo atleta un po’ dotato, ecco che pretendono da lui che diventi un Pirlo o una Pellegrini, quando si sa che, se va bene, solo uno su cinquantamila vedrà mai scritto il suo nome su un qualsiasi palmares. Ma può anche accadere che il piccolo faccia una gran fatica e sia scarso. Situazione, per altro, molto comune e affatto disdicevole. Ma in questa società così competitiva siamo talmente abituati all’idea di eccellenza che, quando si verificano situazioni non proprio ottimali, tendiamo subito a sminuirle ulteriormente. Se un bambino di appena sei anni non fa mai canestro, allora non sarà mai un campione. Ciò è quanto pensano molti adulti quando il rendimento dei loro generati non risponde alle loro aspettative più o meno manifeste. Genitori che non hanno capito che con l’allenamento e la costanza si assiste spesso a miglioramenti impensabili e, soprattutto, che se il figlio è contento di essere lì e svolgere quello specifico sport, non devono di certo essere i genitori a insinuare insicurezza, dubbi o paure. Se si divertono e si fanno nuovi amici correndo e saltando, capendo cosa sia il lavoro di gruppo, responsabilizzandosi e crescendo con sani principi e in salute, perché levare loro questa possibilità, solo per un atto egoistico di chi, prima di loro, non è riuscito a conseguire le gratificazioni tanto agognate. Insomma, i genitori devono imparare a vivere lo sport in modo tranquillo e sereno, rendendo l’agonismo un oggetto interessante e piacevole, ricordando che si tratta sempre e comunque di un gioco. Il genitore utile allo sport… e allo sviluppo psichico e motorio del figlio.

IL DECALOGO — Ora riassumeremo, in una sorta di decalogo, i comportamenti e atteggiamenti che ogni genitore dovrebbe assumere, seguendo le linee guida di psicologia sportiva attuali, in modo che possano rendere l’attività sportiva del proprio figlio il più efficace, divertente e soddisfacente possibile.

  1. I genitori, conoscendo e capendo il proprio figlio per le qualità, i limiti, le intenzioni, i desideri, i bisogni, gli errori e gli insuccessi devono stimolare e incoraggiare la pratica sportiva, lasciando che le scelte e i ritmi dell’attività siano condivisi e accettati dai figli.
  2. I genitori stimano il figlio nonostante gli errori e i limiti, cercando di non sottolineare più del dovuto una gara mal riuscita ed evitando nel modo più assoluto rimproveri, perché producono solo ansia da prestazione.
  3. I genitori devono incitare i figli a migliorare, facendo capire che l’impegno negli allenamenti sarà una futura fonte di soddisfazioni. Devono evidenziare i miglioramenti, sdrammatizzando gli aspetti negativi e incoraggiando quelli positivi.
  4. I genitori devono aiutare i figli a stabilire tappe e obiettivi realistici e adeguati alle loro reali possibilità.
  5. I genitori devono fare capire che saper perdere è difficile, ma che nel contempo è più importante che saper vincere, perché nello sport, così come nella vita, il più delle volte non si vince. L’importante dopo una caduta è rialzarsi.
  6. I genitori devono tener conto che l’attività sportiva è svolta da bambini e non da adulti e che i compagni e gli avversari dei propri figli sono anche loro bambini da rispettare e, come tali non si devono offendere con paragoni o giudizi di qualsiasi genere.
  7. I genitori devono trasmettere i concetti di rispetto delle regole, di rispetto dei compagni e degli impegni, collaborando al raggiungimento degli obiettivi stabiliti dagli istruttori e dalla società.
  8. I genitori devono stimolare la crescita del proprio figlio, sviluppando lo sviluppo della sua indipendenza ed evitando di essere onnipresenti in tutte le situazioni.
  9. I genitori non devono interferire nelle scelte tecniche e nelle decisioni degli istruttori. Devono imparare e insegnare a rispettare il ruolo dei tecnici e a collaborare con loro, evitando di esprimere rimostranze o critiche.
  10. I genitori devono rispettare le votazioni dei giudici o arbitri, che devono essere assolutamente insindacabili, seppure talvolta sbagliate.

 




15 COSE CHE OGNI NUOTATORE FA (ma che non ammetterà MAI)

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15 COSE CHE OGNI NUOTATORE FA (ma che non ammetterà MAI)

di nuotounostiledivita

 

Ci sono alcuni gesti o comportamenti che vengono ripetuti da praticamente tutti i nuotatori, gesti a cui ormai non facciamo più caso perché sono completamente entrati nelle nostre vite e nelle nostre abitudini, comportamenti in cui ogni nuotatore (o quasi) si ritroverà. Insomma, siamo strani e divertenti: siamo nuotatori!!

  1. Dimentichiamo il numero di vasche durante gli esercizi

Capita a tutti: arrivati a metà esercizio, nel bel mezzo della virata, non ricordiamo più a quale vasca siamo arrivati. Non ci resta che affidarci al nostro compagno di squadra che sta guidando l’esercizio, sperando che almeno lui non se lo sia scordato.

  1. Perdiamo tempo durante la doccia a fine allenamento

È una delle usanze tipiche di ogni nuotatore: rilassarsi con i compagni di squadra, parlando del più e del meno, sotto una bella doccia calda che rilassa i muscoli, è un must al termine di ogni sessione di nuoto.

  1. Facciamo finta di aggiustare gli occhialini durante un esercizio che non ci piace

Tutti lo abbiamo fatto, almeno una volta. Quando siamo troppo stanchi, o l’esercizio proprio non ci piace, fingiamo di sistemare l’elastico che lega le due lenti dei nostri occhialini svedesi. D’altronde si sa che noi nuotatori siamo molto precisi e non sopportiamo la minima imperfezione!

  1. Ci tiriamo alla corsia mentre l’allenatore è girato

Gambe, tavoletta, dorso … Ognuno di noi odia almeno uno di questi esercizi e quando l’allenatore ha la luna storta e inizia a fare ripetizioni interminabili, beh … cerchiamo la soluzione più semplice! Bisogna allenare anche le braccia, no?

  1. Non riconosciamo i nuotatori quando li incontriamo fuori dalla piscina

[ – “Ehi ciao.” –  “Ciao. Chi sei?” – “Simone, quello di nuoto!” – “Ah oddio! Non ti avevo riconosciuto!”] Sì, capita più o meno a tutti. È difficile immaginare il modo in cui vestono nella vita normale, persone che hai sempre visto con addosso solo un costume.

  1. Durante gli allenamenti pomeridiani / serali, pensiamo sempre a cosa mangeremo a cena

Il cibo è una fissa per tutti i nuotatori, soprattutto durante gli allenamenti. Arrivati al set centrale non possiamo non iniziare a pensare a cosa mangeremo per cena, naturalmente porzioni abbondantissime di qualsiasi cosa!

  1. Mentiamo all’allenatore riguardo al numero di vasche fatte

Non lo facciamo apposta, è una cosa che viene quasi spontanea. Quando l’allenatore chiede a che serie siamo noi … beh, gli diciamo che ne abbiamo fatta sempre una o due in meno rispetto alla realtà! Vogliamo sempre allenarci di più, eh sì!

  1. Tocchiamo i piedi a chi ci precede ma va troppo lento 

Puoi farlo apposta oppure involontariamente, ma è un inequivocabile gesto per “levati da davanti, io sono più veloce, più forte e più bello”, poi magari ti lascia andare avanti e tu cambi idea.

  1. Odiamo in segreto chi ci tocca i piedi ma non ci sorpassa

Eccolo, il nuotatore insopportabile che arriva dietro di te, ti tocca i piedi, e quando gli chiedi se vuole passare non ti sorpassa. Pena di morte per tutti costoro, anzi no … ogni tanto lo facciamo anche noi.

  1. Fingiamo di avere i crampi per saltare i set particolarmente tosti

[“ahhh mister, crampo, questo giro mi fermo”] Meriteremmo quanto meno un premio oscar per le nostre straordinarie interpretazioni. Se ce l’ha fatta Leo possiamo farcela tutti!

  1. Convinciamo le persone ad abbandonare la nostra corsia aggiungendo un inutile 25 delfino al nostro riscaldamento 

Quando ci si allena in solitaria ci si trova sempre ad affrontare le situazioni più difficili: corsia piena di gente che non sa nuotare, ragazzi che parlano attaccati al muretto … Quando entriamo in acqua sentiamo il bisogno di far subito vedere chi comanda: quale miglior modo per farlo se non con un 25 delfino?

  1. Siamo super felici quando è il compleanno di un compagno di squadra, perché magari porta la torta 

[“Ah è il tuo compleanno? Oddio che bello!” – “muahahaha a fine allenamento si mangia”] Perché alla fine si torna sempre lì, al CIBO!

  1. Canticchiamo nella nostra testa il ritornello della stessa canzone per tutto l’allenamento

Basta ascoltare una canzone durante il tragitto in pullman o in macchina e non riusciremo più a toglierci le sue note dalla testa. Passeremo l’allenamento a canticchiare il suo ritornello. Capita spesso, troppo spesso.

  1. Immaginiamo di essere Federica Pellegrini o Michael Phelps

Ammettetelo, ognuno di voi vorrebbe essere uno di loro. Tutti sogniamo di essere Ryan Lochte o Michael Phelps, Federica Pellegrini o Katie Ledecky. Voi chi vorreste essere?

  1. Pensiamo costantemente tutto il giorno, tutti i giorni, al cibo e al nuoto.

Ormai l’abbiamo detto fino alla nausea, ma è la cosa che facciamo più spesso: pensare al cibo, a cosa c’è nel frigo, a cosa mangeremo appena arrivati a casa. E poi al nuoto, non appena usciamo di piscina iniziamo a pensare a quando sarà il prossimo allenamento. Siamo così, siamo nuotatori.

 

 

 




Consegna brevetti di livello.

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Salve orgoglioso popolo dell’Acquarama,

sabato pomeriggio si e’ conclusa la consegna del brevetto di livello. Ben 460 sono stati i ragazzi presenti al conferimento del diploma di qualsiasi grado, età e orario. Grande la soddisfazione per lo scrivente, la società e ovviamente il corpo insegnante che desidero citare in modo particolare per la pazienza e la dedizione mostrata in ogni singolo evento. Gli allievi istruttori: Marco, Giammarco, Noemi, Giulio, Matilde, Carolina, Marco Tondini e Andrea. Gli istruttori: Dario, Francesco, Chiara, Giuseppe, Irene, Antonio, Angela,Margherita, Martina, Silvia, Diletta e Sara. Piccole commozioni durante le tante cerimonie caratterizzate soprattutto dall’età di alcuni bambini; il loro imbarazzo e la loro impaccio e’ stato spesso motivo di sorriso e simpatia.

Qualche momento di tensione, se pur piccolo, e’ avvenuto nel mentre di alcune consegne. Troppi genitori, nonne, fratelli e parenti vari che affollavano il piano vasca, le scale e il perimetro della vasca piccola nell’affannoso tentativo di far indossare ciabatte e accappatoio ai bimbi appena usciti dalla vasca in attesa del premio. Ebbene probabilmente lo scrivente e’ di vecchio stampo, forse ancora attaccato ai tradizionali metodi e poco incline alla modernità ma ritengo che lo sport, qualsiasi voi pratichiate, nuoto, calcio, basket, karate ecc ecc, debba essere considerato positivo nella crescita di un bambino per molti motivi; non solo quelli fisici o prettamente didattici e comportamentali quali il rispetto dell’istruttore, dei compagni e delle regole di convivenza civile. Un altro aspetto importante e’ mostrare indipendenza  nel cambiarsi di abito all’inizio lezione  e nel rivestirsi a fine lezione, ma soprattutto nell’indossare ciabattine e accappatoio da soli immediatamente al termine della lezione senza aiuto di nessuno. Non molto credo, ma molto educativo per un bambino. Provate ad insegnarglielo, senza correre o strafare. Sarà un ulteriore passo in avanti verso l’apprendimento, non solo sportivo ma personale.

Vivere con i bambini e per i bambini insegna molto e a tratti diventa affascinante. “Picasso disse che gli ci volle 4 anni per dipingere come Raffaello ma una vita per dipingere come un bambino. Loro vivono in uno spazio incantevole a metà strada tra sogno e realtà; assaggiamo i colori, ascoltano le forme e vedono i suoni. Avremmo tutti bisogno dello stesso sostegno.”

Grazie.




10 MOTIVI per cui i COMPAGNI di SQUADRA sono ESSENZIALI

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di elisincro

Possono essere grandi o piccole, di nuoto sincronizzato, di nuoto pinnato, di triathlon, possono essere agonistiche oppure no. La tua squadra è e sarà per sempre la tua squadra e le persone che ne fanno parte resteranno per sempre nel cuore: i tuoi compagni e le tue compagne sono essenziali. Abbiamo individuato i 10 motivi per cui una squadra di nuoto (e i suoi componenti) non dovrebbe mai mancare nella vita di una persona, eccoli:

  1. Una SQUADRA è una grande FAMIGLIA:

Si passano così tante ore assieme, che una squadra diventa senza ombra di dubbio la propria famiglia. Si condividono gioie e dolori, i compagni e le compagne ti comprendono sempre. Una squadra non ti giudicherà mai, anzi ti accetterà sempre per quello che sei.

  1. Sono gli unici disposti a PRESTARCI sempre quello che ci SERVE:

Quante volte ci è capitato di dover chiedere in prestito qualcosa? Almeno una volta nella vita deve esservi successo. E quante volte ci siamo ricordati di restituirle? Siamo sicuri di aver portato tutto e poi mancano cuffia / occhialini / stringinaso / shampoo / pinnette / palette. I compagni sono sempre disposti a prestarci qualsiasi cosa, anche se sanno che non la riavranno mai più! Non insisto oltre, penso abbiate capito.

  1. Senza di loro che DOCCIA sarebbe?

Quanto sarebbe noioso e stressante fare la doccia, soprattutto dopo un lungo e faticoso allenamento? I compagni di squadra invece sono sempre disposti a farti tornare il sorriso e far passare la stanchezza! A meno che non abbiano voglia di fare scherzi, allora sarebbe meglio evitarli se non si vuole qualche cuffia piena di acqua gelata in testa! Eppure anche questo fa parte del gioco.

  1. Ti aiutano quando SBAGLI

Una vera squadra sa riconoscere i propri limiti ed i limiti di ciascun componente. Non c’è niente di più bello che aiutarsi a vicenda: ognuno può svelare i propri trucchi, le proprie tecniche, i propri rituali pre-gara. Assieme si cresce.

  1. CIASCUNO è di FONDAMENTALE importanza all’interno della SQUADRA

Se manca un compagno o una compagna, la squadra lo nota, subito. Perché si ritrova in un enorme difficoltà: dover fare a meno del proprio compagno di squadra durante quell’allenamento. C’è quello che guida il riscaldamento, quello che racconta le barzellette, quella che sorride sempre, quello che contratta con l’allenatore il numero di esercizi da fare: ognuno è importante all’interno di un team. Questo fa accrescere la propria autostima! “

  1. Ti aiutano a SOPPORTARE lo STRESS pre-gara

Tutti, chi più chi meno, hanno paura prima di doversi buttare in acqua. Ma se si è in tanti ad avere paura, beh, è certamente diverso! Assieme si può ascoltare la musica, guardare le nuotatrici / i nuotatori fighi delle altre squadre, ridere, scherzare, piangere (magari anche no). Insomma senza una squadra le gare sarebbero un incubo.

  1. Le RISATE sotto l’ACQUA che ti fanno venire sono le migliori

Oh, andiamo, se non lo avete ancora fatto è assolutamente da provare! Ve lo giuro, è certificamene verificato che le risate sotto l’acqua sono le migliori! Si può ridere per qualsiasi cosa: una buffa esibizione delle proprie compagne, una virata completamente errata, una storia stupidissima che ti hanno appena raccontato. Inizi a ridere e non riesci più a smettere, cerchi di chiudere la bocca per non bere e finisce sempre che per poco affoghi.

  1. Ti SOSTENGONO quando non ce la fai più con le vasche

Un esercizio troppo duro o delle ripetute troppo pesanti? Nessun problema! I tuoi compagni saranno pronti a passare avanti e darti il tempo di riposare. A cambio però che tu faccia lo stesso con loro, sia chiaro. Oppure possono iniziare a toccarti i piedi / tirarteli / farti bere acqua, fino a quando non ritorni al ritmo giusto: mai essere disattenti! “

  1. Dalla PISCINA non esce NIENTE

In una squadra ci si ritrova a parlare di qualsiasi cosa: sogni, scuola, lavoro, ragazzi, ragazze… Ogni discorso vale! I tuoi compagni sapranno mantenere il segreto fino alla tomba. All’interno della propria squadra non si potrebbe nascondere nulla e non c’è alcun bisogno: perché dalla piscina non esce mai nulla.

  1. SENZA di loro non avresti una SQUADRA e non potresti nuotare

Ultimo, ma non per questo meno importante, anzi. Senza dei compagni, senza una squadra, non potresti nuotare. Si certo, la piscina è aperta lo stesso, ma vuoi mettere andare da soli oppure andare con dei pazzi scatenati che ti fanno ridere e divertire, che ti insegnano nuove cose e rendono meno noiosi anche gli allenamenti più lunghi? Beh, mica roba da poco!




Disabili e sport, gli ostacoli quotidiani

Dietro alle lacrime di Zanardi e il grido di Bebe Vio ci sono migliaia di disabili. Che praticano sport tra difficoltà e pregiudizi.

di Francesca Buonfiglioli

  1. P. ha nove anni ed è nato con una sofferenza cerebrale che gli ha provocato epilessia e ritardo cognitivo.
    Dopo le riabilitazioni in piscina e l’ippoterapia, da poche settimane ha cominciato a giocare a calcio. E gli piace.
    «Va agli allenamenti volentieri», racconta la mamma, «gioca con altri bambini, non è solo una terapia».
    «UN TRAGUARDO GRANDIOSO».Castel San Pietro, provincia di Bologna. Qui da qualche mese è nata la Scuola Calcio Integrata Aiac Renzo Cerè. «Lo sport aiuta tantissimo questi ragazzi con disabilità intellettiva», spiega il presidente Davide Bucci che ha ‘reclutato’ allenatori e psicologi come Elenia Poli. «Lanciare la palla a un compagno significa comunicare con lui», ha sottolineato la dottoressa presentando il progetto. «Per loro è difficilissimo già far parte di un gruppo, imparare ad accogliere la palla è un traguardo grandioso».
    Una bella storia che arriva dalla provincia, proprio dove praticare uno sport per un disabile è più difficile.

Calamai: «I disabili chiedono solo un amico con cui giocare»

Calato il sipario sulle Paralimpiadi, sul grido di gioia emozionante di Bebe Vio e sulle lacrime di Alex Zanardi, il rischio è che si dimentichino le difficoltà quotidiane che migliaia di ragazzi con un handicap devono affrontare per fare sport.
«Soprattutto quelli che non parteciperanno mai a una Paralimpiade o a un campionato», dice aLettera43.it Marco Calamai che dopo aver allenato squadre di basket in serie A, una ventina di anni fa anni ha cominciato a insegnare ai ragazzi con disabilità, mettendo insieme sullo stesso playground disabili e normodotati.
PIONIERE DELLE SQUADRE INTEGRATE. «Mi guardavano come se fossi pazzo», racconta. «In realtà avevo solo ascoltato le loro richieste: giocare con un amico più bravo o che nelle difficoltà ti sa sostenere».
Giocare con un amico. Nulla di meno e nulla di più.
«In campo servono un allenatore e qualche amico, non un terapeuta», insiste Calamai – tra le altre cose titolare di master universitari proprio su disabilità e sport – che vorrebbe una sola Olimpiade, per normodotati e disabili.
«LO SPORT NON DEVE ESSERE TERAPIA». Il problema è che siamo ancora imprigionati nei luoghi comuni. «Se ormai c’è consapevolezza dell’esistenza dei disabili», spiega il coach, «resiste ancora l’idea che abbiano sì diritto di fare sport ma come terapia. Occorre un salto di qualità. Questi ragazzi, esattamente come tutti gli altri, hanno diritto di fare sport per divertirsi. Se poi l’attività li aiuta e li fa stare meglio ben venga. Ma il fine non deve essere quello».
Oltre alle barriere architettoniche, sono queste barriere culturali che vanno abbattute: «Campioni come Zanardi sono esempi che trasmettono una grande forza. Dovrebbero parlare nelle scuole, ai ragazzi. Ma dobbiamo pensare al 99% di coloro che vorrebbero gareggiare a livello internazionale e che non potranno farlo mai perché banalmente non abbastanza bravi. La politica deve lavorare concretamente per loro».
INCARTATI NELLA TERMINOLOGIA. Invece finora ci siamo incartati nella terminologia.
Il passaggio da ‘handicappato’ a ‘disabile’ fino a ‘diversamente abile’ è stato letto come una conquista. «Ma i miei disabili», continua Calamai, «mi dicono che a loro non importa nulla di come li si chiami: oggettivamente sono handicappati. Chiedono solo di poter limitare le loro difficoltà».
E dire che la nostra legge, spiega ancora il coach, è una delle più avanzate in Europa: «Poi però spesso i ragazzi disabili restano fuori dalle classi, non partecipano alle attività, e gli insegnanti di sostegno non sono sempre preparati come dovrebbero».
UNA QUESTIONE DI ELASTICITÀ. La ricetta per una vera ‘integrazione’, anche se la parola come sempre è stata già superata da una più politically correct ‘inclusione’, è facile e a costo zero.
«La diversità è un valore», sottolinea Calamai. «Basterebbe un’ora alla settimana in cui ognuno possa fare quello in cui è più forte: sai suonare ma non sai fare di conto? Suona. Sai recitare? Recita. I compagni di classe li guarderebbero come fenomeni. Il problema è che servono elasticità e rispetto».
E come sempre servono investimenti.bebe-vio